venerdì 19 agosto 2016

Festina in Bosnia-He: incoscienza e conquista


Mi ha riaccompagnato alla pensione nell'attimo preciso in cui il Muezzin dall'altro lato del fiume ha iniziato a cantare. Ha annunciato la preghiera dell'alba ed io, tutt'altro che coperta da capo a piedi e polverosa di detriti e di vita, mi sono trovata assolutamente pronta per pregare.

Un paio di ore prima stavamo camminando lungo il Bulevar ed ho iniziato a fare le mie cento domande su edifici e storie. Qua e là tra palazzine abitate e ristrutturate intravedevo edifici in rovina, con ferite vecchie vent'anni e pietre nude barricate alla buona con travi ed oblio. "Noi ci entriamo in questi edifici. Più avanti ce n'è uno alto diversi piani, all'interno è pieno di vetri rotti e rifiuti. Ma facendo attenzione puoi salire fino in cima, c'è un punto in cui ti puoi sedere con le spalle contro una recinzione. Puoi stare lì e pensare".

Abbiamo continuato a camminare pigramente, una serie di graffiti ha prodotto altre domande. "Cosa c'è scritto qui? Cosa vuol dire sloboda?" "Vuol dire libertà". D'un tratto nel buio di una strada laterale ci siamo fermati alle spalle di un muro di due metri. A quel punto è stato lui a chiedere a me: "Allora vuoi che andiamo?" Ho messo insieme i pezzi in tre secondi ed ho detto di sì. Lui mi ha spinto sul bordo di quel muro, è salito e risceso dall'altra parte e mi ha aiutato ad entrare. Una pietra di qua e una corrispondente di là aiutano gli intrusi a fare quello che stavamo facendo noi. Introdursi nella enorme carcassa di una vecchia banca, data all'odio e alle fiamme, adesso ai vandali ed ai poeti.

Abbiamo esplorato il piano terra. Mi aveva avvertito, il pavimento di cemento vivo è zeppo di ferri piegati e bottigliacce sparse. Sinceramente, non so bene che altro. La mia vista è totalmente assetata di disegni e simboli, li cerco nelle pareti, li tocco e me li metto dentro, in assenza di macchina forografica o altri ausilii di memoria. Il telefono lo stiamo usando per illuminare dove mettere i piedi.
L'edificio è un parallelepipedo con una base stretta e lunga. Una scala solida ma esposta alle raffiche di vento per l'assenza della parete laterale sale di piano in piano. Con l'altezza aumenta la potenza del vento e si conquista un panorama di luci e movimenti sulla città.



All'ottavo piano, la scala si interrompe. Una scaletta verticale in metallo ci separa dalla conquista del tetto. Lui di nuovo "Vuoi che andiamo?" e prima di riflettere, mi trovo con le mani su un piolo ed i piedi che seguono, incredibilmente stabile nel mio intimo vacillare. Una pioggia lieve e una nuvola appiccicosa coprono il cielo. Essere sul tetto è come volare, si vede tutto e si vede lontano. Tra vetri rotti prendiamo posto accanto alla recinzione. Dico "thank you" a quell'angelo di demone che mi ha portato fin lì.

Se ci volete andare, trovate il palazzo difronte al Gymnasium. Non andateci soli, se potete. Solo dopo, facendo delle ricerche, ho letto che era la torre da cui l'esercito croato prendeva di mira il popolo bosniaco sopra Spanski trg. Proprio lo scheletro di quella vecchia banca era stato la torre dei cecchini. Adesso ci si portano i turisti a fare scatti, ci si va a scrivere, drogarsi e scopare.  Quando qualcosa e qualcuno di nudo si rivela a te così improvviso, è tangibile l'illusione di aver affondato una mano sotto il velo della superficie. Per questo Allah ti rendo grazie.